MOBBING - CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO

ORDINANZA 23 giugno 2020, N.12364

Nella specie, la Corte territoriale ha innanzitutto premesso una nozione del mobbing conforme a quella ricorrente nella giurisprudenza di legittimità (cfr. ex multis Cass. 12 dicembre 2018, n. 32151; Cass. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684; Cass. 24 novembre 2016, n. 24029; Cass. 6 agosto 2014, n. 17698) secondo cui ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche  da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

La Corte di Cassazione ha quindi ritenuto, con valutazione ancorata alle risultanze di causa, puntualmente esaminate, che, per quanto fosse emersa la sussistenza di una situazione conflittuale tra la lavoratrice e il sottotenente M., non ricorresse l'ipotesi posta a fondamento della domanda e cioè quella di un comportamento a effettiva valenza persecutoria caratterizzato da "pretestuose iniziative disciplinari ed esasperati rilievi sui luoghi di lavoro", essendo risultato: che il superiore gerarchico aveva agito nell'ambito dei poteri conferitigli dall'ufficio ricoperto; che in molte occasioni gli interventi erano stati indirizzati anche nei confronti di altri agenti; che le contestate violazioni degli ordini di servizio che la G. aveva posto a base del preteso mobbing, e soprattutto quelle relative al mancato rispetto dell'orario di lavoro, non erano apparse pretestuose, tanto che i ritardi erano stati confermati, anche  se poi erano risultati giustificati; che le condotte aggressive o, comunque, eccessive tenute dal M. in occasione delle contestazioni non avevano trovato, se non in un caso, la indispensabile conferma (essendo, perlopiù, mancata nei testi la cognizione diretta dei fatti). Ad avviso della Corte territoriale, pertanto, non era stata fornita una prova sufficiente da parte della G., sulla quale incombeva il relativo onere, di un comportamento, posto in essere ai suoi danni dai superiori gerarchici, intenzionalmente ed ingiustificatamente ostile, avente le caratteristiche oggettive della prevaricazione e della vessatorietà, connotato da plurime condotte emulative e pretestuose, irrilevanti essendo al tal fine le mere posizioni divergenti e/o conflittuali connesse alle ordinarie dinamiche relazionali all'interno dell'ambiente lavorativo.

La Corte adita, invero, sottolinea come la Corte di merito, pur ravvisando nei fatti di causa la sussistenza di una situazione conflittuale tra la lavoratrice e i superiori gerarchici, abbia ritenuto che non era stata fornita una prova sufficiente da parte della ricorrente, “sulla quale incombeva il relativo onere, di un comportamento, posto in essere ai suoi danni dai superiori gerarchici, intenzionalmente ed ingiustificatamente ostile, avente le caratteristiche oggettive della prevaricazione e della vessatorietà, connotato da plurime condotte emulative pretestuose, irrilevanti essendo a tal fine le mere posizioni divergenti e/o conflittuali connesse alle ordinarie dinamiche relazionali all’interno dell’ambiente lavorativo” e, quindi, in sostanza, non era stata fornita la prova del carattere mobbizzante di tale comportamento.

 

 

 

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